Quest’oggi pubblicherò per i nostri lettori il primo blocco delle recensioni dei film da me visti al LocarnoFestival71.
Ognuno corredato da relativo concorso.
Nei link in fondo, invece, i vari discorsi ufficiali; tra i quali, quelli ascoltati al ricevimento inaugurale: presente qui, anche il Consigliere federale Alain Berset.
LIBERTY, regia di Leo McCarey
B/N, USA, 1929.
Piazza Grande si è aperta al suo vasto pubblico con la proiezione di un film comico con i beniamini Stanlio & Onlio.
I nostri, evasi da un carcere, si scatenano in mille gag al puro scopo di riuscire a scambiarsi i pantaloni.
Se ne vedranno delle belle e la riconquista della libertà sarà ardua, inseguiti a vista sempre da un agente.
Senza dialoghi, in collaborazione con il LAC Lugano Arte e Cultura, il mediometraggio è stato accompagnato dalla musica live di Zeno Gabaglio e Brian Quinn.
LE BEAUX ESPRIT, regia di Vianney Lebasque. Francia, 2018.
La serata inaugurale è entrata nel merito con un film francese, basato sulla vita di un allenatore paraolimpionico che allena una squadra di disabili mentali.
Alcuni di questi ultimi decidono di mollarlo quando è ora di partire per il Canada e Martin, questo il suo nome, a sua volta padre di una ragazzina con disabilità fisica, è nei guai: non può permettersi di perdere le sovvenzioni statali o la sua Federazione, come del resto il suo lavoro, giungerebbero al capolinea.
Finisce per lasciarsi convincere da alcuni giovani (sani…), ad integrarli nella squadra per sostituire gli assenti.
Se normalmente assistiamo a persone con andicap lottare per integrarsi… In questo spassoso film assisteremo all’esatto contrario: normodotati che fingono alla grande andicap mentale.
Tra loro, un giovane aspirante attore che in conferenza stampa, fingerà addirittura di non riuscire a rispondere alle domande dei giornalisti; per poi essere surclassato dal suo collega realmente disabile, con grande soddisfazione di quest’ultimo.
Insomma, tra partite vinte impunemente, amori clandestini nei corridoi, comici tentativi di corteggiamento di ragazze molto snob e vite che si mescolano alla rinfusa, per Martin è impossibile non provare qualche senso di colpa: si rende conto di star giocando veramente sporco…
PARDI DI DOMANI: CONCORSO INTERNAZIONALE.
In questa sessione, assistiamo alla selezione e proiezione di corto e mediometraggi.
EL LABERINTO, regia di Laura Huertas Millan.
Francia/Colombia/USA, 2018.
Prima mondiale.
Il film racconta la vita di un grosso mercante di stupefacenti colombiano. Su due livelli, per non dire tre, ascoltiamo la sua voce narrante che ci racconta quasi “romanticamente” i propri ricordi, per poi ammirare la grande villa copia esatta di quella della serie anni Ottanta “Dynasty”, sua autentica ossessione; per poi venire ripiombati nella triste realtà della vita colombiana. Sullo sfondo, fasti e decadenza di un’era. A metà tra il film ed il docu-film.
3 ANOS DEPOIS, regia di Marco Amaral.
Portogallo, 2018.
Prima internazionale
In una pellicola quasi onirica ed irreale, assistiamo all’attesa ed al ritorno di una donna. Non sappiamo chi sia. Forse era andata via tanto tempo prima. Intanto, si scatena una tempesta…
TOURNEUR, regia di Yalda Afsah
Germania, 2018.
Prima internazionale
Cosa succederebbe se una corrida non si svolgesse più nel modo che ci aspettiamo?
Privo di qualunque dialogo e quasi senza suoni, a parte quelli degli zoccoli, assistiamo ad un toro che corre in mezzo ad una infinita schiuma di sapone.
Il pubblico lo guarda e lo osserva. Tutti partecipano, grandi e bambini, e come se non vi fosse alcun pericolo, anche i più piccoli si “tuffano” nella schiuma, per giocare a rincorrersi. Solo questo in pratica fanno: una rincorsa collettiva tra animale e persone. Se l’atmosfera è surreale, io l’ho quasi inteso come un tentativo giocoso di interpretare la tradizione senza spargimento di sangue…
A COLD SUMMER NIGHT, regia di Yash Sawant, India 2018.
Prima mondiale.
In un piccolo guardiere di un paesino indiano, si consuma la storia d’amore segreta tra Ketan e la sua giovane amante.
Lui lavora in un ospedale e ha già moglie, in attesa tra l’altro di un figlio.
Una fatalità attira l’attenzione dei vicini Sulla loro stanzetta barricata e lui è infine costretto ad aprir loro la porta.
Scoperta la tresca, la collera e la condanna morale del quartiere sarà senza scampo.
Mentre la ragazza viene portata via dalle pettegole vecchie del paese, lui viene invitato a partire.
Alla fine, si dirigerà a piedi verso l’ospedale, dove sembrerà non rimanergli altro da fare che addormentarsi su un sacco in cantina.
SARAS INTIME BETROELSER, regia di Emilie Blichfeldt, Norvegia 2018.
Sara è una giovane complessata a causa dell’altezza superiore alla media per una donna e della corporatura robusta.
Cerca il suo posto al sole come donna… “Dialogando” con la sua vulva. Che la tiene ancora ancorata al fatto innegabile di essere una donna.
Concorso internazionale
TARDE PARA MORIR JOVEN, regia di Dominga Sotomayor, Cile/Brasile/Argentina/Paesi Bassi/Qatar, 2018.
In un villaggio sperduto nelle Ande, vivono alcuni nuclei famigliari molto uniti e partecipativi, quasi come un’unica famiglia.
La vita scorre lenta nell’atmosfera calda e calma. Tuttavia, anche se non sembra ad un occhio meno attento, qualcosa si agita in tanto silenzio.
Assistiamo ad una cena di fine anno per noi inusuale, nel caldo e all’aperto, ancora in piena luce diurna.
Una cena che vuole beneaugurare molta fortuna per il nuovo anno, che dovrebbe consentire la nascita del “nuovo mondo” che questo microcosmo di persone si propone di costruire. Persone che fumano quasi tutte, anche le più giovani; e che senza problemi, si godono tutte un buon bicchiere della produzione locale. A dire il vero, qualche piccolo vizio, in un nulla senza molto obblighi o impegni, pare essere l’unico svago accessibile. Quali saranno le differenze tra i giovani di città e questi abitanti adolescenti e protagonisti, in questo villaggio?
Forse non molte: in ogni caso dovranno crescere, affermare la loro personalità e soprattutto, fare le proprie scelte… Perché per fingere di essere ancora piccoli è ormai tardi.
FILM IN PIAZZA GRANDE, dopo l’assegnazione del Premio Rezzonico a TED HOPE.
“L’ORDRE DES MEDECINS”, regia di David Roux. Francia, 2018.
Simon e’ un medico affermato e in gamba, anche affascinante, il che non guasta. Ne’ giovane e ne’ vecchio, all’alba dei suoi 37 anni ha infranto qualche cuore; mentre il resto del tempo lo dedica alla professione che svolge con dedizione profonda, senza mancare di umanità. Non mancano neppure le festicciole in reparto ed il team è molto unito. Insomma: non manca nulla alla sua vita, a parte forse un sommesso rimpianto per una fidanzata, forse quella giusta, lasciata scappare.
È in questo momento che, come una doccia fredda, si accorge grazie alle sue personali cure, che la madre è gravemente malata: dopo aver trascurato una peritonite, è ormai in setticemia. Figlio e medico, tutto passa in secondo piano. Fa di tutto per stare vicino a sua mamma il più possibile, in barba alla carriera e per rendere i suoi ultimi giorni il più possibile soddisfacenti. Il giorno che sua mamma non riesce quasi più a mangiare nemmeno un po’ di gelato, capisce che la fine è vicina. Sarà lui a dover preparare al peggio la famiglia, composta da una sorella sposata e un padre afflitto e impaurito.
“Un mese, un giorno? Non si sa”, spiegherà loro.
Nell’ultimo respiro, il suo mondo pare finalmente sciogliersi nella tristezza e nel prevedibile senso di colpa. Ma sarà salvando la vita ad una giovane paziente, che comprenderà il suo ruolo per sempre ed il senso della sua vita.
Parabola sulla vita di medico che inizialmente somiglia un po’ ad un patinato telefilm, che si trasforma via via in una lezione di vita.
OPEN DOORS: SHORT
DEATH OF A READER, regia di Mahde Hasan, Bangladesh 2017.
Prima europea
Una regista ci racconta un po’ turbata, a mo di confessione difronte ad una cinepresa, per quale motivo non ha più voglia di leggere…
THE OPEN DOOR, regia di Jamyang Jamtsho Wangchuk, GB, 2018.
Prima mondiale
Epopea di una madre single in una società, quella tra Bhutan e Tibet, ancora giudicante. La protagonista è sola, della sua famiglia di origine non è sopravvissuto nessuno, ma lei lavora alacremente per offrire meglio ai suoi figli. Non è facile e nemmeno alcune sue amiche capiscono il suo coraggio. Ma lei non nasconderà il suo volto e la sua situazione a nessuno.
YAR-THI MOE (Seasonal Rain), regia di Aung Phyoe. Myanmar, 2018.
Ispirato ad un racconto della poetessa e scrittrice birmana Kyi Aye, narra le vicende di una ragazza indecisa se accettare o meno la corte di un uomo. Lui tenta di sedurla con metodi suadenti, promesse di matrimonio e dichiarazioni d’amore. Lei osserva altre madri con appesi i figli al collo e sembra domandarsi se è quello il futuro che vuole per se. Ma la problematica è anche un’altra: è cosciente che la gravidanza potrebbe essere la conseguenza di un rapporto sessuale. E la società in cui vive, è ancora repressiva per le donne. Osserviamo la protagonista sfumare quasi sullo sfondo alla fine della storia, come a voler restare indietro a perdersi nella propria indecisione.
SILVER BANGLES, regia di Roshan Bikram Thakuri. Nepal, 2017.
Trattasi di una storia vera.
La nascita di un amore rivoluzionario tra giovani appartenenti a caste differenti, in una regione in cui è in corso la sollevazione maonista.
DIA, regia di Hamza Bangash.
Pakistan/GB 2018.
Prima mondiale.
Questo corto mi ha letteralmente sconvolta.
Tali sono la resa del senso di disgusto e dell’angoscia della giovane protagonista, cui la madre vieta di proseguire gli esami, come qualcosa di inutile, una perdita di tempo per una donna… Gli appartenenti al sesso maschile eppure, in tutta la trama sembrano appena delle ombre accennate, delle voci fuori campo. In tutta questa realtà/irrealtà claustrofobica, l’unica presenza maschile, affettuosa e amichevole, è l’amico, il fidanzato virtuale segreto (si sentono su pc via Skype), della giovane protagonista… Che immagina momenti d’amore, di libertà e risate, con chi in realtà non esiste. Che ne ascolta tutto il tempo, dei consigli in realtà piano piano sempre più nocivi.
Miriam, prima così spensierata, piano piano scivola nel disagio psichico. Tenterà quasi un suicidio, diventerà bulemica, il suo volto sarà sempre più scavato come quello di uno zombie.
In tutto questo isolamento, costante deprimente di tutta la vicenda, tutto ciò che la madre farà all’inizio, sarà portarla da un padre spirituale. “Quante volte preghi al giorno?”, domanda ripetuta fino alla nausea. Non so nemmeno se sia reale il leccaggio disgustoso cui l’uomo le sottopone il palmo della mano o se è una allucinazione della ragazza ormai sconvolta. È difficile dire se anche il ragazzo virtuale non sia immaginario. Ma tra la realtà e l’allucinazione, la madre decide infine di portare Miriam da uno psichiatra. E le accenna la possibilità, cedendo, di ultimare gli esami.
Se dovessi assegnare un premio, lo darei a questo cineasta per aver reso tangibili il disagio mentale, il dolore e l’angoscia della protagonista. Complimenti alla giovane attrice.
Concorso internazionale.
DIANE, regia di Kent Jones, USA, 2018.
Film con molte sfaccettature e significati.
Che vediamo davvero nella vita di ognuno di noi.
Diana, la matura protagonista, c’è per tutti, sempre. Ma tutto ciò che sanno rinfacciarle è un errore giovanile, quando ha accettato la corte di quello che era il fidanzato della cugina.
Ma è lei a starle vicina in punto di morte, malata terminale di cancro.
Certo, è pur vero che se la cugina glielo rinfaccia… È perché ci sorge il dubbio nella vita di quest’ultima, non ci siano stati molti altri momenti felici. Forse ha ragione anche lei. Tutti hanno ragione. Tutti cercano un senso prima che sia tardi.
Diana probabilmente lo è stata in quel momento. Ma poi? “A quei tempi ero irrefrenabile”, dice. Ma poi si cambia.
Ma poi la vita l’ha abbondantemente punita, evidentemente: un figlio ormai adulto tossicomane, che la madre, vedova, va tutti i giorni a controllare se abbia mangiato… Se non sia soffocato nel suo vomito.
Il resto del tempo, ormai pensionata, lo trascorre come volontaria alla mensa per i poveri.
La sola cara amica di una vita, con la quale pranzare. Ma che poi muore improvvisamente. “Da piccole pensavamo che tutti avrebbero vissuto per sempre”, le aveva detto l’amica un giorno, in uno dei loro pranzi. Quel “tutti” la dice lunga…
E quel figlio che sembra riprendersi solo grazie ad una ragazza, che lo affilia ad una pseudo setta cristiana. Per lui la fede diventa un senso.
Ma non c’è pace per Diana, alla quale poi tocca discutere ogni sera a tavola, non volendosi votare a sua volta al loro culto, imposto da figlio e fidanzata quasi con prepotenza.
Diana, vedendo sfumare la propria vita, verrà meno alle sue idee e deciderà persino di provare l’eroina, almeno una volta. Una pre-morte come un “risveglio” al passato, un cammino all’indietro della mente, nel quale rivedrà tutta se e tutta la propria esistenza.
Madre e figlio però sembrano chiarirsi, in un momento inaspettato di nascosto alla fidanzata di lui.
In un momento di insperata lucidità.
L’unico e l’ultimo.
Poi il salto temporale.
Vediamo una Diana molto invecchiata.
Trascorre gli ultimi giorni come ha vissuto: facendo qualcosa di concreto per chi ha bisogno. La vediamo intenta a dare da mangiare agli uccellini nei nidi a casetta da lei adibiti, prima dell’improvvisa confusione che precede il suo spegnersi. Nella sua confusione, un’ultima frase : “Chi chiamavo che non veniva mai?”.
È Soccorsa solo da una vicina della quale non vediamo il volto.
Del figlio non sappiamo più nulla.
Un film sulla solitudine.
Il sospetto che rimane aleggiante, che la cugina, che le curava il figlio piccolo, gliel’abbia messo contro, è molto forte.
Un film anche sul fatto, sulla paura che tutti possano un giorno tradirci e su come questa consapevolezza ci avveleni.
E non ci resta che la compassione nell’assistere alla perenne punizione cui Diana è stata sottoposta.
Di quell’amore di gioventù non è rimasto nulla. Rivedendosi molti anni dopo, sembra davvero poco importante.
L’incapacità di comunicare davvero sovrasta tutto il film insieme a tutto ciò che così ci perdiamo.
Diana non sorriderà per tutto il film. Ciò colpisce davvero tanto.
È impressionante come una leggera ironia corra su ben altro binario e rida sommessamente solo il pubblico. Io a ridere non ce l’ho fatta.
Nasciamo soli e muoriamo soli, nel senso più vero del termine.
Ma alcuni più di altri.
Ci basta per concedere un perdono?
Con lo zampino di Martin Scorsese nella produzione. Non per niente.
PIAZZA GRANDE.
Dopo la consegna del Pardo d’Onore a Bruno Dumont.
THE EQUALIZER 2, regia di Antoine Fuqua. USA, 2018. Con Denzel Washington.
Il protagonista qui è una specie di Angelo Vendicatore dei più deboli, delle vittime di brutalità e ingiustizie. Una “Mano di Dio”, che punisce chi distrugge le vite degli altri. Robert McCall sembra vivere una doppia vita. Di giorno comune tassista. Osserva e ascolta i suoi cliente con un sorriso bonario: chi si reca ad un colloquio di lavoro ed è terrorizzato, chi telefona alla mamma per dire che è stata accettata al college. Le vite di ogni giorno. La notte però in lui si risveglia il ruggito di chi non sopporta la sopraffazione urbana della sua città.
Il suo passato riaffiora il giorno che gli viene caricata in auto una giovane stagista, come merce. Imbottita di droga da studenti mascalzoni e figli di papà e stuprata.
La ragazza piange nella confusione.
Questo lo fa arrabbiare e parte come un’onda punitiva.
Ma è solo l’inizio. In una società amorale è sempre più decida ai soldi e al crimine, viene brutalmente ammazzata prima una coppia. All’uomo in lacrime, il freddo e spietato killer dice solo di non piangere: “Non serve a niente. Non chiedermi perché. Tu sei solo il nome su una lista. Io eseguo solo un compito”. Verrà poi ammazzata la più cara amica di Robert. E fatta saltare in aria mezza palazzina di un quartiere. Gli artefici sono sempre gli stessi esecutori. Che non hanno fatto i conti con le sue sviluppatissime capacità, quasi magiche, di non farsi sfuggire alcun dettaglio. Robert è stato spia, militare e investigatore. Ha combattuto e vinto nelle aeree più impervie del pianeta. E ben presto scoprirà chi si cela dietro tanto abominio.
E scatterà una spettacolare vendetta. Sullo sfondo di una tremenda tempesta.
Un film d’azione bellissimo, senza cadute di tono, e che ci fa ben sperare che “qualcuno davvero ci pensi ancora”. Il finale è beneaugurante: Robert è riuscito a salvare un giovane talentoso dalla criminalità di strada.
Il discorso ufficiale di inaugurazione del Consigliere federale Alain Berset. (Una parte):
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Il discorso ufficiale di inaugurazione del Presidente del Locarno Festival Marco Solari:
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Le considerazioni finali nel discorso ufficiale di inaugurazione del direttore artistico del Locarno Festival, Carlo Chatrian:
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Il presidente Marco Solari agli onori di casa per i ringraziamenti alla press nella Press Lounge:
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L’ospite ufficiale nella Press Lounge adibita da MUM, ci illustra il film “L’Ordre del Medecin”; un film dall’importante valore umano. (Il video è in lingua francese):
https://www.facebook.com/IntervisteFotoByMonnalisa/videos/1911079738949944/
Critics Academy Round Table “Quale futuro per il cinema?” (Presentazione degli ospiti / Spazio Cinema):
https://www.facebook.com/IntervisteFotoByMonnalisa/videos/1912196752171576/
Pardo d’Onore appena assegnato a Bruno Dumont:
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Monica Mazzei
addetta stampa culturale
ETiCinforma
monica.mazzei.eventi@gmail.com