Alla vigilia della successione Burkhalter ritengo utile segnalare le vicissitudini inerenti la rielezione, al suo terzo mandato, del magistrato ticinese Stefano Franscini. Stefano Franscini, proposto dai radicali ticinesi venne eletto in Consiglio Federale per la prima volta il 16 novembre 1848, dopo una lunga permanenza nel Governo cantonale ticinese.
Per due legislature, sei anni, sedette a Berna designata come prima sede stabile del neocostituito Stato federale il 28 novembre 1848. Rinnegato dai ticinesi in votazione popolare nell’ottobre del 1854, la rielezione del magistrato ticinese al suo terzo mandato fu possibile solo grazie ai radicali sciaffusani, i quali lo proposero e lo votarono come loro rappresentante in Consiglio Nazionale, condizione allora indispensabile per accedere alla carica di consigliere federale.
L’Ottocento politico ticinese fu frequentemente segnato da cruente lotte partitiche e la condanna politica del Franscini, da parte dei suoi concittadini, evidenzia la grande faziosità che allora regnava. Un primo episodio di violenza politica fu la marcia verso Locarno, allora sede del Governo, delle guardie civiche e dei carabinieri alla guida del radicale avv. luganese, Giacomo Luvini nel dicembre del 1839.
I liberali, in quell’occasione, espugnarono il Governo conservatore e proclamarono nello stesso mese il Governo provvisorio con Stefano Franscini presidente e, come segretario di Stato, il suo compagno e amico radicale Giovan Battista Pioda. Lo stesso colonnello Luvini, avvocato luganese, fu protagonista nel 1847, durante gli scontri bellici con il Sonderbund (Lega separata) di una clamorosa fuga di fronte al nemico.
Ai primi spari della colonna urana che scendeva dal San Gottardo verso Airolo, in preda al panico fuggirono come un treno diretto senza fermata fino a Arbedo. Arruolati in gran parte per coscrizione militare obbligatoria per i militi ticinesi, il Sonderbund non era la loro causa, non erano sufficientemente motivati per combattere. Del Sonderbund, la popolazione ticinese nutriva scarso interesse, era piuttosto una questione per politici, notabili e colonnelli.
La litigiosità politica, intrisa di incancreniti campanilismi, e nutrita da un’aizzante stampa di partito perdura per tutto l’Ottocento perturbando pesantemente, soprattutto nei centri, il vivere civile e l’ordine pubblico. In questo tragicomico alternarsi di cruenti scontri fisici e verbali, di ridicolo e costoso pendolarismo della sede di governo, da Bellinzona, Locarno e Lugano, vennero ad aggiungersi due altri moti “rivoluzionari”, nel luglio del 1841 il primo e nel settembre 1890 il secondo.
Due persone persero la vita, nel primo l’avvocato conservatore Giuseppe Nessi, condannato a morte da un tribunale speciale, nel secondo il conservato Consigliere di Stato Luigi Rossi, colpito a morte durante l’invasione del Palazzo Governativo a Bellinzona, da parte del settembristi radicali.
La litigiosità dei ticinesi, sapientemente orchestrata dalla politica, cosa produceva di utile? Le frequenti, chiamate pomposamente “rivoluzioni”, che esempio davano alla laboriosa gente di allora? Oggi cosa è veramente cambiato? La litigiosità dell’Ottocento ha da tempo preso la forma dei prima i nostri, intesa come assegnazione nepotistica di impieghi nell’amministrazione, ma non solo. Meriti e sanciti diritti di ognuno al lavoro, vengono bellamente calpestati dal nepotismo partitico, piaga sociopolitica che distribuisce impieghi condizionati alla fedeltà nel voto. Fedeltà elettorale codificata nell’espressione “non si sputa nel piatto in cui si mangia”.
Meno confessionale, rissosa e di piazza, la politica del 20° secolo e oltre, si fa più spiccatamente economica, affaristica, più nascosta, chiusa nel vortice paludoso di interessi personali. Una mala politica, come denunciato di recente da qualcuno.
Tralascio il periodo fascista e nazifascista, perché si tocca l’apice dell’umana bruttura, oggi ancora imperante nel mondo intero.
Olindo Vanzetta, Biasca